Qualche giorno fa, un mio cliente che ha una sua Partita IVA come artigiano, mi ha telefonato per chiedermi se, dovendo pagare un altro professionista per una consulenza relativa a un alloggio di proprietà di sua moglie, poteva farsi fare la fattura come “consulenza contrattuale” per poter dedurre il costo e detrarre l’IVA nell’ambito della sua attività imprenditoriale.
Gli ho subito risposto di NO, che non solo non può far intestare alla sua “ditta” una prestazione che non riguardava lui ed era relativa ad un immobile al di fuori della sua attività imprenditoriale. Di più, gli ho spiegato che farlo sarebbe un reato, anzi due: un reato di emissione di fatture false lo commette quel professionista, un reato di utilizzo di fatture false lo commette il cliente che usa quel documento per dichiarare un reddito inferiore a quello reale.
Mi è toccato spiegare a quel cliente che, se per entrare nel campo del diritto penale in caso di evasione fiscale occorre superare i 100mila euro di imposta evasa (e sotto quella soglia ci sono solo sanzioni amministrative), nel campo delle “fatture false” non esiste franchigia e basta una fattura da 10 euro per mettersi nei guai.
“Ma non si tratta di una fattura falsa!”, mi ha obiettato il cliente. “Quel professionista ci ha fatto una consulenza e la fattura corrisponde esattamente all’importo che dobbiamo pagargli…”
Non è così, naturalmente: il concetto di fattura falsa si è velocemente evoluto ed oggi abbraccia diverse tipologie di irregolarità:
- Una fattura può essere falsa nell’ammontare, indicando un importo diverso (tipicamente: molto maggiore) rispetto a quello effettivamente dovuto.
- Oppure può essere falsa sotto il profilo oggettivo, quando descrive oggetti o prestazioni diversi da quelli venduti o eseguiti, per non dire di quelle fatture che descrivono operazioni inesistenti (prestazioni mai effettuate, oggetti mai venduti).
- Oppure ancora, una fattura può essere falsa in senso soggettivo, ovvero indica come cliente qualcuno che non è il beneficiario o il committente della prestazione, o che non viene emessa da chi la prestazione l’ha svolta (mi viene in mente il caso di un giovane collaboratore di uno studio professionale, costretto a prendersi una partita IVA per fatturare non al suo “datore di lavoro” ma ad alcuni suoi clienti, consentendo fra l’altro a quel datore di non superare certe soglie di ricavi e restare indebitamente in regime forfettario).
In tutti questi casi, si ricade in un reato tributario specifico, con sanzioni che non sono soltanto in denaro ma vanno da sei mesi a otto anni di reclusione (non entro qui nel dettaglio delle fattispecie e delle pene).
Tanto per valutare il rischio, mancando un importo minimo di franchigia, facciamo l’esempio estremo di una fatturina da 50 euro: è sufficiente che qualunque controllore in qualunque sede (dal vigile urbano al funzionario dell’Agenzia Entrate, della Guardia di Finanza e perfino della SIAE) abbia un piccolo dubbio circa gli importi, la descrizione o le due parti. Per evitare di incorrere lui in un reato specifico (l’omissione di atti d’ufficio, che “vale” anch’essa da 6 mesi a 2 anni di carcere), quel controllore non si prenderà il rischio e farà denuncia all’autorità giudiziaria.
Siccome in Italia vige l’obbligatorietà dell’azione penale, il Pubblico Ministero sulla cui scrivania arriverà la denuncia, dopo aver giustamente sbuffato per la perdita di tempo a fronte di un “reato bagatellare” (che tale non è perché, quando si è provato a depenalizzarlo qualche anno fa, si sono levate alte grida di scandalo), aprirà il fascicolo e manderà ai due birbanti un avviso di garanzia. Il professionista e il cliente dovranno quindi correre da un avvocato penalista e, anche se la pratica rimarrà magari giacente per anni sotto tante altre sulla scrivania di quel P.M. fino a prescriversi, cominceranno a lasciargli un congruo fondo spese per avviare le pratiche di difesa.
Al di là della violazione di una legge, la domanda minima che occorrerebbe farsi è: ne vale la pena?