Piccoli imprenditori e lavoratori autonomi: manca una vera cultura della sicurezza?
In questi ultimi giorni abbiamo assistito, attoniti ed impotenti, ad un costante e continuo stillicidio di morti sul lavoro, con cifre statisticamente più pesanti di quelle che il trend del dolore sa offrire usualmente. Morti sui cantieri, nei campi, nelle fabbriche: nessuno dei comparti tradizionalmente e statisticamente più a rischio ha fatto eccezione.
Gli accorati appelli delle parti sociali, delle categorie dei lavoratori, delle famiglie devastate dal dolore hanno trovato un’eco ed una amplificazione nei mass media, smuovendo ulteriormente i vari dicasteri ed il Parlamento che da tempo avevano ipotizzato un incremento dei controlli, un inasprimento delle sanzioni e la possibilità di creare una vera e propria “patente a punti” per la sicurezza. Lo stesso premier Mario Draghi, in una recente intervista, ha parlato di “pene più severe ed immediate”.
Ma è davvero questa la strada giusta per giungere al vero obiettivo della sicurezza, che è soprattutto limitare (azzerare purtroppo è pura utopia) le morti e gli infortuni gravi sul lavoro, o piuttosto creare a monte una “cultura della sicurezza” che dovrebbe essere la base primaria per una corretta prevenzione e valutazione dei rischi?
Facciamo alcuni ragionamenti.
Le norme iniziali sulla sicurezza risalgono alla metà degli anni ’50 del secolo scorso, norme nate per irreggimentare le modalità operative e salvaguardare la salute e sicurezza dei lavoratori in un periodo di potente crescita lavorativa legata alla ricostruzione post bellica. Le norme in questione erano certamente all’avanguardia e molte delle disposizioni in esse contenute sono state recepite nella normativa successiva, giunta fino ai giorni nostri pur se ovviamente aggiornata con l’evolversi dei tempi. Il recepimento delle direttive europee aveva condotto al D.Lgs. 626/94, che comprendeva le varie norme preesistenti (dove abrogandole, quando cooptandole, ove innovandole) in un unico codice divenuto il riferimento per il settore della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Questa norma venne poi globalmente rivisitata nel 2008 portando al D.Lgs.81, aggiornato costantemente negli anni successivi e comprendente anche il Titolo IV riferito ai cantieri – la nuova versione del D.Lgs. 494/96 a ciò attinente -.
Le norme quindi ci sono, corpose e molto puntuali. Nelle norme, fin dal 1994 ma ancora di più con l’introduzione del D.Lgs. 81/2008, si insiste molto sulla necessità di formare il lavoratore affinché sia conscio dei rischi che corre nell’ambito del proprio ruolo e delle proprie mansioni, conoscendo i pericoli da affrontare e le prevenzioni da considerare.
Ecco, la formazione. La formazione è certamente un aspetto nodale nella costruzione di quella “cultura della sicurezza” che dovrebbe rendere più garantista la modalità di espletare il proprio lavoro in termini di sicurezza. Ma – e lo avevamo già accennato in un precedente articolo – davvero la formazione viene erogata nel modo corretto? E davvero i piccoli imprenditori ne hanno capito l’essenzialità e la necessità? E veramente i lavoratori autonomi hanno coscienza di cosa voglia dire formazione?
Perché forse qui manca un anello nella catena dei giusti ragionamenti governativi, imprenditoriali e sindacali: le statistiche parlano di numeri complessivi, ma vengono analizzate nelle loro micro-realtà interne e nelle valutazioni di settore? Ci sono gli stessi numeri, a livello di infortuni, a dire che muoiono in egual misura lavoratori operanti in aziende di grandi dimensioni piuttosto che in piccole e medie imprese con meno di 15 dipendenti oppure ancora nel caso di singoli imprenditori e lavoratori autonomi?
L’evidenza dei fatti dice che sono le piccole realtà imprenditoriali ed i singoli lavoratori autonomi a comparire con elevata frequenza nelle tristi statistiche degli infortuni mortali e di quelli più gravi. Perché bisogna anche ricordarsi che al telegiornale fa più notizia il morto del giorno, ma nessuno racconta di quanti si fanno male gravemente e restano allettati o su una sedia a rotelle per tutta la vita.
E’ evidente che le risorse impiegabili da una multinazionale o da una grande azienda con fatturati a sei o nove zeri sono tali da rendere più facilmente organizzabile una corretta gestione quotidiana della sicurezza, destinando fondi e persone a far divenire operativamente naturale la virtuosità della sicurezza aziendale, con audit interni e formazione aziendale aggiuntiva rispetto a quella richiesta dalle normative.
Purtroppo, per la realtà del quadro nazionale delle imprese operanti, tutto questo non riesce ad essere altrettanto facilmente effettuato da PMI e lavoratori autonomi che vivono realtà operative ed economiche a volte ancorate a visioni ormai disgiunte dalla realtà del lavoro quotidiano; soprattutto quando ad operare sono piccoli imprenditori avanti negli anni e legati ad ambienti o attività di tipo tradizional-famigliare spesso resilienti al cambiamento ed alla lettura delle norme di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.
Ecco quindi leggere notizie da bollettino di guerra giornaliero che parlano di operai che cadono da impalcature, agricoltori che si ribaltano col proprio trattore, piccoli imprenditori che precipitano da lucernari o ponteggi improvvisati, autisti ed operatori travolti sui cantieri mobili stradali ed autostradali. Molto spesso si tratta di realtà lavorative composte da 4-5 addetti o addirittura da singoli artigiani/imprenditori. Perché questa è la realtà del tessuto nazionale del lavoro: una frammentazione di piccole o micro aziende che si confronta con un ridotto numero di imprese di elevata, quando non gigantesca, dimensione (vedere tabella allegata). Tutto il contrario di quanto accade in tanti altri Paesi occidentali dove le imprese tendono ad essere composte da molte persone, divenendo così più competitive anche nel settore della sicurezza aziendale.
Può una micro impresa o – peggio – un singolo lavoratore avere le stesse risorse, impiegare lo stesso tempo, dedicare le stesse energie di imprese molto più grandi, per gestire bene e in assoluta completezza una normativa complessa come quella sulla sicurezza e tutti i relativi adempimenti burocratici, documentali, tecnologici, operativi? La risposta sta proprio nel numero degli infortuni, nelle morti, nella tipologia delle figure rappresentate.
Qui infatti non si tratta sempre e solo dell’incapacità di operare in sicurezza o della volontà di imprenditori senza scrupoli di spremere i lavoratori come limoni risparmiando su modalità e dispositivi di sicurezza. Ci sono certamente anche diversi di questi casi (e basti citare il caporalato in agricoltura o il subappalto illimitato in edilizia), ma quando si legge di morti riguardanti gli imprenditori stessi, caduti da impalcature o morti asfissiati in una cisterna, magari proprio per salvare uno dei dipendenti (spesso familiari), dovrebbe sorgere qualche dubbio. Il dubbio che proprio l’assenza della “cultura della sicurezza” sia alla base di comportamenti sbagliati o illogici che portano a morti in altra maniera facilmente evitabili; il dubbio che la formazione, questi piccoli imprenditori o lavoratori autonomi, non l’abbiano vista nemmeno dipinta; il dubbio che le sanzioni da sole non serviranno mai e poi mai a risolvere il problema.
Sanzionare ed inasprire costantemente le sanzioni già previste quando un insieme di eventi dimostra che le sanzioni già normate non hanno portato ad una soluzione generalizzata del problema, è un male legislativo tutto italico. Se è vero che non vi sono ispettori sufficienti a verificare le singole realtà aziendali ed operative una per una, è altrettanto vero che arrivare ad infortunio avvenuto o su segnalazione non è certamente in accordo con l’idea della prevenzione né tantomeno con quella della evocata e desiderata cultura della sicurezza.
L’idea della “patente a punti” per l’azienda in termini di sicurezza potrebbe essere premiante proprio se si riuscisse a “dare i punti” prima che l’azienda arrivi all’infortunio, non dopo. Mi ricollego al riguardo a quanto già scritto in precedenza sul nostro sito a riguardo della necessità di valutare le capacità operative dell’azienda ben al di là di un mero controllo burocratico di DURC e visure camerali, ma di valutarne la capacità di risposta alla emergenze vere ed alla prevenzione dei rischi lavorativi.
E poi: la formazione. Il ruolo della formazione è unico e centrale nel fornire un diverso e più proattivo approccio alla sicurezza. Formarsi vuol dire cambiare: cambiare il modo di pensare un determinato argomento, cambiare il modo di approcciarsi ad esso e migliorare le proprie risposte. Il controllo va fatto sulla formazione, sulle conoscenze vere e non solo burocratiche acquisite nei corsi erogati (quando lo sono stati…), sulla costante richiesta di attenzione all’argomento sicurezza. Di nuovo richiamo la discutibile e, alla luce degli eventi, non giustificata facoltatività di formazione dei lavoratori autonomi nei cantieri edili, che sono attività certamente ad elevato rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Nessuno chiede ispettori che diano una pacca sulla spalla quando arrivano in un luogo di lavoro dove si è verificato un infortunio grave o addirittura mortale: lì vanno valutate situazioni e responsabilità, non c’è spazio per insegnare, non c’è modo di formare, il guaio purtroppo è già accaduto. Ma prima, in passaggi organizzati in azienda con personale assunto e formato allo scopo dagli organismi di controllo, sì che si potrebbe cercare di instradare il piccolo imprenditore e fargli capire dove è carente, dove sbaglia, dove non ha compreso quanto magari stia rischiando e facendo rischiare nell’operare in un certo modo. Lì si può creare una effettiva “patente a punti della sicurezza”, tornando successivamente a verificare che le disposizioni impartite siano state davvero messe in pratica e a quel punto sanzionando se necessario.
Forse anche i più restii, in questo modo, capirebbero e la sedimentazione serena di queste conoscenze davvero potrebbe portare ad una “cultura della sicurezza” condivisa. Altrimenti i bollettini di guerra continueranno ad elencare quotidianamente tanti, troppi nomi.
Paolo Mercuri, architetto del network Resolvo